Il Tempo Sospeso
Se per caso passate da Lucca, andate a vedere la mostra Tempo sospeso, di due giovani artiste, Emy Petrini e Beatrice Speranza. Emy Petrini è una floral designer, Beatrice Speranza è fotografa.
I “Rifugi” creati con lunghi rami di salice da Emy, i dettagli della foresta fotografati e montati in piccole scatole di noce, così come i cieli fotografati da Beatrice Speranza creano in questa piccola e bellissima chiesa campestre un’atmosfera unica. Cieli, rifugi e foreste sono parole che mi riportano alla mente il girovagare del viandante, tema caro all’estetica romantica dell’Ottocento. Per i romantici era un andare solitario e nostalgico, invece il vagabondare che vedo evocato nelle opere di Beatrice Speranza ed Emy Petrini è proprio il Tempo sospeso. Tempo denso, legato indissolubilmente alla creazione e alla ri-creazione, nel senso di un nuovo stato d’animo che si crea nel viandante. Il vagabondare è fine a se stesso, non importa la meta. E’ il tempo dell’ascolto e dello sguardo.
René Char, (nato nel 1907 e morto nel 1988) è, a mio parere, uno dei poeti che meglio ha saputo raccontare il tempo sospeso; la sua poesia ha la delicata qualità di far apparire il tempo con la sua ambigua potenza di distruttore e rigeneratore. E’ una poesia che fa accadere qualcosa in uno spazio indenne dalle categorie tempo-spaziali a cui siamo abituati (ora, domani, ieri). Char ha vissuto e creato dentro la natura; con arguzia, intelligenza, attenzione e compassione ha attraversato foreste, fiumi e prati della sua Vaucluse, nella Francia del sud.
Nella mia vecchia edizione di Poesia e Prosa trovo queste parole: “Camminavo tra le gobbe di un terreno ripulito, i segreti respiri, le piante senza memoria. La montagna si alzava, fiala colma d’ombra, che a tratti il gesto della sete stringeva. La mia traccia, la mia esistenza si perdevano”. E ancora: “Ciascuno di noi può ricevere / La parte di mistero dell’altro / Senza spanderne il segreto”.
Queste due artiste lavorano insieme, ma ciascuna ha tale padronanza della propria creatività da non essere condizionata dall’arte dell’altra. Anzi: i loro lavori dialogano da poli opposti.
I lavori di Beatrice Speranza sono piccoli, quadrati, spigolosi. Hanno bisogno di una mano minuziosa. Un gesto troppo impulsivo e la cera dilaga sulla fotografia dove non dovrebbe. Le nuvole sono colte nell’attimo di sparire per sempre e la paraffina le confonde. Su altre immagini è intervenuta con un filo di lana, a ricamare un dettaglio. Camminare nella foresta le ha richiesto attenzione, concentrazione, apertura all’ascolto di ciò che la circonda, in modo che l’istante perfetto facesse scattare il dito sulla macchina fotografica. Dopo aver percorso la natura, immagino Beatrice nella solitudine di un piccolo spazio dove lavora la fotografia ricreando il gesto della merlettaia, che passa il filo attraverso la superfice delicata. O la vedo stendere la cera su parte della foto per creare un effetto “seppia” in un dettaglio, manovrare attenta la paraffina incandescente, per dare alle nuvole un velo di infinita lontananza rendendocele, paradossalmente, più intimamente vicine.
Ecco invece il gesto forte e deciso di Emi, colei che misura e infila, piega il suo salice reso elastico da giorni nell’acqua. Vedo la sua accigliata determinazione ad andare avanti nonostante la fatica. Ha bisogno di spazio Emy per creare. Si arrampica, abbraccia la sua scultura, la solleva, la stende. Il suo rifugio è il risultato di una fatica fisica. Le sue grandi sculture vegetali non hanno spigoli, sono dominate dal vortice che avvolge; nella loro conclusa leggerezza però non c’è più traccia della fatica.
testo a cura di Margherita Loy (Il Fatto Quotidiano)